1. Con questo terzo
romanzo sei tornato nel tuo paese d’origine. Cosa rappresenta la Lucania per te
?
La
Lucania è per me il luogo della memoria. È il ricordo che si fa presente. Ho
vissuto a Napoli la maggior parte degli anni della mia vita e qui ho avuto la
possibilità di incontrare una moltitudine di persone, uomini e donne, che
ciascuno a modo suo mi ha dato, e anche tolto, qualcosa; di crescere perché
sollecitato; di non appassire perché sempre in continuo confronto con una
realtà ricca, complessa, difficile, interessante, pericolosa, imperdibile,
odiata, amata. È fin troppo evidente che nel percorso che mi ha portato fin qui
nel tempo Napoli è stata più che decisiva. Però. La bontà e la concretezza di
quell’humus originale non sono mai venute meno. Ciò che io sono oggi, dopo
circa quaranta anni di vita nella città di Partenope, ha comunque le radici in
quella memoria. Perché ha fatto da contro altare impervio, interessante e
fertile ad una realtà nel quotidiano completamente diversa. Realtà mai immota.
Che ha subìto, favorito e prodotto capovolgimenti così radicali che in molti
suoi aspetti hanno stravolto ciò che era. O era stata. Avere, in questo
autentico tsunami sociale, politico ed economico, un punto fermo, per certi versi immobile, a
me è servito. Per non farsi trascinare. Per ricominciare. Con consapevolezza e
lucidità. Perché la parola che da sempre, per quello che mi riguarda,
accompagna la parola Lucania è: dignità. Oserei dire che sono sinonimi. Tanto
che il mio smarrimento a volte è proprio quello di vedere con triste
consapevolezza che quella parola, dignità, ha come perso consistenza, spessore,
forza. Oserei dire popolarità. Fra la gente di Lucania. Che in troppi si
ostinano a chiamare Basilicata.
2.
Nella tua terza fatica fai spesso riferimento agli amici di sempre. Perché è importante
l’amicizia per Vito Ferrone/ commissario Lombino ?
Io
senza amici non so campare. Perché? Non lo so. So che è così, e basta. L’unica
cosa che mi viene in mente per dare consistenza e forma a queste frasi così
perentorie e sintetiche è ricordare un bellissimo film di qualche anno fa. “Le
conseguenze dell’amore”, con Toni Servillo. Che confinato in un’arida città della
Svizzera a riciclare danaro per un potente clan mafioso, in una scena
commovente e disperata, cerca inutilmente di spiegare, senza molto impegno devo
dire perché evidentemente ha capito che è inutile, ad un figlio piuttosto
scettico, se non riottoso, che se si è amici lo si è per sempre. E non contano
né il tempo né lo spazio. Cioè le distanze. O gli inciampi della vita. È un’alchimia
che resiste. Dà forza, incoraggia, fa compagnia, rassicura, risolve. Basta
alzare lo sguardo. O il telefono. E sentirsi rispondere: “Non ti muovere. Sto
arrivando”. In tutte le lingue del mondo. In tutti dialetti del mio amato sud.
3.
Nei tuoi romanzi
emerge una vasta gamma di figure
femminili forti. Sono madri, mogli, amanti e assassine. Ci vuoi raccontare
il tuo universo femminile?
L’universo
femminile? Un illustre sconosciuto. Se qualcosa, poco, ci ho capito e ho
cercato di riportare nei miei libri, non è merito mio ma di chi, per motivi
legati alla propria complessità e che io non conosco, ha deciso con gratuità,
intelligenza pazienza e curiosità di svelarsi. In qualche modo. Almeno un po’.
Così qualcosa sono riuscito ad imparare. Sono pur sempre uno attento. E ho
riproposto. Senza nessuna pretesa di averci preso. Il personaggio che amo di
più è Carmelina. Tata o presunta tale. Perché Carmelina rappresenta e presenta il
cuore di Napoli. Di una Napoli che in una certa misura non c’è più. Certamente
la Napoli popolare. Ma non solo, direi. Con tutta la sua generosità, la sua
saggezza, la sua ironia, la sua perspicacia, la sua capacità di affrontare le
avversità della vita e della storia ma anche con le sue paure, le sue invidie,
le sue piccole o grandi meschinità, la sua cattiveria. Carmelina è il dottor
Watson di Lombino. Lombino in fondo risolve perché conosce, ascolta, vede,
sente, percepisce. Non perché è geniale, enciclopedico, politicamente corretto,
con tutte le pene del mondo sulle sue spalle, scientifico, triste, disperato,
con un passato che non si può dire e un presente che lasciamo perdere,
tecnologico o, Dio ce ne scampi e liberi, perché esperto di profili.
Psicologici. No. Il commissario, ad oggi vicequestore, Lombino sa di che si sta
parlando. È uno normale. Normodotato, se così posso dire. Che conosce i suoi
polli. E quando Carmelina comunica, lui afferra. A tempo e luogo. Si capisce. L’universo di cui
prima ovviamente non inizia né finisce con Carmelina. C’è Rosaria. L’amica che
tutti vorremmo avere. Bella, intelligente, sincera, appassionata, fidata,
affidabile. Non esiste un’amica così nella realtà? Io dico di sì. Con
Margherita, dottoressa Scarfoglio, poi ho passato i guai miei. Le mie poche e
appassionate lettrici e amiche me ne hanno dette di tutti i colori. Qualcuna è
arrivata perfino a scomodare Freud. Che io appena so come si scrive. Una
proiezione dei miei più ancestrali e inconsci desideri. E proprio perché
inconsci io non sapevo di averli ma le mie lettrici ed amiche sì. Loro lo
sapevano. Io volevo solo creare un contrasto forte e speravo, spero,
interessante, tra uno sbirro che viene dalla zolla, non sempre a suo agio e non
sempre sicuro di quello che sta facendo o pensando o dicendo, e un magistrato e
una donna spigliata, brillante, glamour con natali e magione sulla collina più
chic, che più chic non si può, Posillipo. Anche con i cognomi sono stato
attento. Scarfoglio. Che dire di più. E Lombino. Cognome di emigranti. Al di là
dell’oceano. Ma a chi lo dici? Alle mie lettrici e amiche è di sicuro tempo
perso. Poi dovrei ricordare Assunta Imperio, donna di camorra. Adriana
Ferrigno, capo della squadra catturandi. Antonietta, agente scelto della
polizia di stato. Annalisa. Maddalena. Rachele. Annamaria. Un universo,
l’abbiamo detto. Con un immarcescibile centro di gravità permanente. Rosaria.
Mia moglie.
4. Ti occupi nel tuo
libro, raccontando il processo a Galileo Galilei, di cattolicesimo e pensiero
laico. Perché hai avuto la necessità di affermare attraverso Galileo che “ la ricerca è sempre frutto di una scelta.
Morale….. , e che…non è vero che la scienza debba rispondere solo a se stessa.”
?
Galilei.
Vorrei partire da un elemento di chiarezza. Sincera. Mischiare teologia e
scienza sperimentale è stato da parte della Chiesa un errore. Che difatti non
ha più commesso. Però. Da questo a sostenere che tra la fede, in quanto
riconoscimento di un mistero, e la scienza, quale espressione più fulgida della
ragione (o della razionalità?), c’è un vulnus insanabile, foriero di scontri
ineluttabili e drammatici e di scelte forti, secondo me è sbagliato. Perché non
è così. Voglio solo ricordare alcuni dei nomi che hanno fatto la storia della
scienza. Sperimentale. Quella di Galilei per intenderci. Pascal, Maxwell,
Ampère, padre Secchi. E non vorrei dimenticare Copernico o Keplero o lo stesso
Galileo. Lo so. Si può sempre pensare di opporre a questo elenco, molto parziale
devo dire, altri nomi. Odifreddi, per esempio. Ma a parte, come dire?, il
diverso spessore scientifico, ciò non toglie che molti di quelli che hanno
cambiato la scienza, sono uomini di fede. Cattolica. O cristiana. Piaccia o no.
Questo è. E allora? Allora è tutto in quiz. Perché mai coloro che più di tutti
si preoccupano di noi e di me e della mia intelligenza e della mia coscienza, si
sono guardati bene dal dire che Galilei non aveva nessuna, dico nessuna, prova
sperimentale certa e definitiva? Tanta arroganza sì. Ma prove inequivocabili
nessuna. C’è voluto Foucault con il suo pendolo. Parecchi, ma veramente parecchi,
anni dopo. E il quiz continua. Perché gli illuminati dalla ragione e troppe
volte dai troppi soldi o più maldestramente dall’ideologia hanno dimenticato di
dire parecchie cose? Sono sicuro che l’hanno fatto per il ben nostro. Io li
ringrazio, ma il problema resta. Perché non ci hanno detto che Galilei non
ha mai pronunciato la frase “eppur si
muove”? Che non è stato incarcerato? Che non è stato torturato? Che non gli è
stato impedito di continuare i suoi studi? Che ha potuto incontrare i suoi
allievi, confrontarsi con altri studiosi e scrivere la summa del suo pensiero
scientifico? Dopo il famoso processo. Perché? Perché si sono dimenticati di
dircelo? Anzi hanno sostenuto il contrario. Allora, una volta saputo e capito,
ho cercato di rispondere. Al quiz. Senza pregiudizi. Nel rispetto dei fatti
certi. Storicamente certi. Accettando il rischio di farlo. Sì il rischio.
Perché Galilei e il suo processo rientrano a pieno titolo in una lotta senza
quartiere. Anzi sono l’alfa e l’omega. Di questa lotta. Scatenata da quel
capitalismo finanziario d’assalto globale che ha affamato mezzo mondo se non
qualche cosa in più e che ha i soldi, quelli veri, per orientare, diciamo così,
la ricerca scientifica. Che fa sempre di più, in molti campi, da catalizzatore
di un nuovo umanesimo. Se questo non bastasse, nel nostro disastrato paese
abbiamo i buoni, i bravi e i belli che come sono acculturati loro, nessuno mai.
I quali, in nome e per conto di una laicità a loro uso e consumo, si sono
accodati. Hai visto mai. Non ci saranno prigionieri. In questa guerra. Ma ho
deciso di farlo lo stesso. Perché non se ne può più. Io non ne posso più. Dei
nuovi sacerdoti della ragione e dei custodi dell’assioma del relativismo della
verità. E delle nuove e splendenti e inarrestabili conoscenze scientifiche. Che
renderanno tutto e, soprattutto, tutti noi un’altra cosa. Liberi e immortali. O
quasi. Felici e potenti. Più o meno. E finalmente aiuteranno a cancellare le
differenze. Tutte le differenze. Fra uomini e donne. Prima di tutto. Che so’
ste stronzate? Ste differenze? Siamo tutti li stessi! E non in dignità e
diritti come è giusto che sia. No, no. Siamo, o se non proprio siamo, lo
saremo, tutti la stessa cosa. A buon peso, certo. Non è che stiamo a spaccare
il capello. Ma nessuna differenza di genere. Mai più. La scienza darà una
grossa mano anche in questo. Ha già dato una grossa mano. Gli scienziati, non
tutti, certo e per fortuna, hanno scelto. Quanto liberamente non saprei, ma lo
hanno fatto. La cosa bella è che lo hanno fatto, dicono loro, perché la ricerca
di per sé risponde solo a se stessa. Non ha limiti. Non può e non deve avere
limiti. È difficile credere che siano sinceri. Anche in considerazione dei
miliardi di dollari che ci vogliono ogni anno. Per la ricerca che non conosce
limiti. Ma solo la coscienza di sé. Lo stesso voglio dare credito. E allora
dico: non è così. E anche se non è proprio elegante, aggiungo: ricordatevi dei gas
usati fin dalla prima guerra mondiale grazie al meglio della fisica tedesca, delle
armi chimiche e di quelle batteriologiche. Tenete sempre bene a mente che
l’apice dell’intelligenza e della genialità di molti scienziati fu la bomba atomica.
In fondo, caro Mario, mi sono preso un rischio per amore di quello che Lombino
chiama la fisica, e dintorni. E per il rispetto profondo di tutti quelli che
ancora ci credono nella fisica, e dintorni. Questa è la verità.
5.
Nella quarta di copertina ci racconti che “ Nucleo
centrale “ è il tuo primo romanzo, che ”Relatività centrale “, che noi abbiamo
letto per secondo, è invece la tua terza
fatica e che “Immobilità centrale “ è il
tuo secondo romanzo. Ci vuoi spiegare ?
“Immobilità
Centrale” è stato pubblicato dopo “Relatività Centrale” è vero, ma ti posso
assicurare che l’ho cominciato a scrivere molto prima. E una prima, lunga e
faticosa stesura definitiva, così pensavo, ha preso forma timidamente e per un
brevissimo periodo come “Centro Immobile”. Poi mi sono deciso a fare tutto
d’accapo, perché non riuscivo a dare un compimento convincente ad un libro
difficile. Difficilissimo, per me. In un certo senso sbagliato. Uno dei miei
più cari amici, autorevole componente del mio competente, affettuoso e quasi
mai tenero gruppo dell’editing, per tutto il tempo che io sono stato impegnato
con “Centro Immobile”, prima, e “Immobilità Centrale”, dopo, ha continuato a
ripetere: un libro funziona tanto più quanto più autore e protagonista sono
distaccati. Distanti. Autonomi. Io non è che non l’ho ascoltato, l’ho fatto, ma
per certi versi non gli ho dato retta. Così la fatica è aumentata. E il tempo è
passato. Le revisioni e le riscritture si sono rincorse e sovrapposte. Tant’è
che ho avuto il tempo di scrivere anche il quarto: “Assenza Centrale”. Di
pubblicazione programmata dopo l’estate. Ne è valsa la pena? Tutta questa
faticata. Non sta a me dirlo. Posso solo ricordare quanto amava ripetere
Hemingway, i cui romanzi sono stati sempre ispirati a persone da lui conosciute
o addirittura frequentate abitualmente. A tutti quelli che con un’ostinazione
degna di miglior causa andavano cercando le persone dietro ai personaggi e la
cronaca dietro ad una storia, diceva: è solo un romanzo. Lo voglio ridire: è
solo un romanzo. Niente di più. E il coinvolgimento personale dell’autore? Se
c’è, non ha alcuna importanza. Perché ciò che conta è la parola. La sua
capacità di nascondere e svelare, di raccontare e far pensare. Di affabulare.
6.
Hai già il titolo del tuo quarto romanzo “Assenza
centrale “ e “ un quinto pensato “. Ci puoi anticipare qualcosa ?
I
nuovi romanzi. “Assenza Centrale”, l’ho detto, è già stato licenziato. L’ultima
stesura mi ha convinto. E i miei
fratelli/coltelli dell’editing di noi
altri - coltelli, e giustamente, solo in questo, perché mi vogliono bene e mai
mi manderebbero allo sbaraglio con un prodotto che non sia più che dignitoso, e
interessante. Naturalmente l’editing di noi altri ha una pecca grave,
purtroppo, perché cazzutissimo sulla forma e sui contenuti non capisce un
accidente di mercato e di mercato editoriale. Insomma sono malmesso, ma va bene
così - i miei fratelli/coltelli, dicevo, erano soddisfatti. Il più critico da
sempre, Alberto, in un momento di debolezza penso, si è spinto addirittura a
dire che sono stato bravo. Quasi bravo. A voler essere pedanti. Con “Assenza
centrale”. Non ti racconto il mio stupore. E la commozione. Comunque, siamo a
Napoli con Lombino promosso vice-questore con delega all’ordine pubblico. E
sposo. Di Margherita. Rosaria non c’è. Si e messa a studiare e ovviamente è
all’estero. In compenso c’è Carmelina alle prese con un nuovo amore. Suppergiù.
Diciamo con un potenziale fidanzato. Toccherà naturalmente al neo vice-questore
fare in modo che la potenza diventi atto. Ovviamente c’è un omicidio. Efferato.
Nella Napoli bene. Così detta. Di una donna che Lombino ha amato. E c’è Ettore
Majorana, il più grande di tutti. A via Panisperna. Che con i suoi silenzi e la
sua scomparsa sembra suggerire una strada, un percorso. Non solo alla fisica. E
a Lombino. Ma a tutti noi. “Centrale”, infine, è un cantiere aperto. Le poche
cose certe. È l’ultimo romanzo di Lombino. Forse ci sarà altro ma il
vice-questore, già commissario, Arcangelo Lombino, non più. Con “Centrale” torno
ai temi della grande criminalità e Margherita come pubblico ministero avrà un
ruolo molto più decisivo che negli altri romanzi. La fisica, e dintorni,
riguarderà la particella di Higgs. La particella di Dio. Dio stesso. E non so
altro. Solo che sarà decisivo il fattore umano. La centralità della persona.
Come sempre.
7.
In “ Immobilità
centrale “ parli di te stesso e racconti le tue radici, tuo padre e soprattutto
tua madre. Come sei veramente ? E che significato ha oggi per te il rapporto
con tua madre ?
Come
sono veramente, mi chiedi. Di preciso, francamente, non saprei bene cosa dire.
Però penso questo. Se uno legge con attenzione, qualcosa ci capisce. In quanto
a mia madre permettimi di augurale ogni bene per molti anni ancora.
Grazie.
Napoli,
10 maggio 2014.
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