“Napoli è Centrale” di Vito R.
Ferrone - Youcanprint selfpublishing
Tutto ha inizio
con una sorta di curioso rompicapo: due donne suicide lasciano lo stesso
identico biglietto, e l’enigmatico messaggio in esso contenuto ha tutta l’aria
di essere indirizzato al commissario Lombino. Potrebbe sembrare solo un
misterioso rovello se non fosse che le due donne vengono dal passato di Lombino
e “il passato che ritorna”, carico di angosciosi interrogativi, è foriero di
vicende assai drammatiche, tanto che
alla fine, come lo stesso autore ci informa nella quarta di copertina, “niente
sarà come prima”.
Questo romanzo
di Ferrone (l’ultimo della saga del commissario?) si riallaccia palesemente al
primo episodio, a quel “Nucleo centrale” che aprì la serie e che i lettori
affezionati ben ricordano.
Tempo è passato:
Lombino, divenuto vicequestore, è felicemente sposato con lo splendido PM
Margherita Scarfoglio da cui attende un figlio, abita a Posillipo, e continua
ad avvalersi della preziosa collaborazione della simpatica e invadente
domestica Carmelina. Ma nessuno sfugge per sempre al proprio passato, sembra
dirci l’autore: ciò che è stato, nel
bene e nel male, ritorna prima o poi a ricordarci chi siamo.
E se in “Nucleo
centrale” Napoli e la “napoletanità” più che uno sfondo della vicenda,
diventavano spesso i protagonisti della storia, qui è il titolo stesso a
suggerirci che Lombino e la sua città d’adozione sono un tutt’uno nella vita
come nel lavoro: capire i luoghi per comprendere i fatti e le persone è la
strategia vincente del commissario. Lombino “legge” i luoghi così come legge
nell’animo umano facendo leva su un’ osservazione attenta, sul buon senso, su un’innata
empatia. E la città, con la sua complessità e il suo fascino, vengono raccontati
attraverso un’ umanità varia: oltre ai collaboratori del commissario, e agli
amici di sempre, troviamo le storie di operai licenziati che minacciano di
buttarsi dal tetto, dirigenti scolastici alle prese con le occupazioni
studentesche, il barista di fiducia e i suoi problemi di famiglia, la vita nei
bassi della città, le vicende del nuovo fidanzato della tata Carmelina. Attraverso
le parole del commissario si intuisce chiaramente il legame viscerale che lega
l’autore alla sua città: un rapporto di amore-odio, una sorta di dipendenza
profonda e indissolubile.
Non può sfuggire
poi che questo libro, più degli altri, è un omaggio alle donne. Giustamente
citate nella dedica come splendide figlie della città di Partenope. Pur nella
loro diversità si tratta sempre di figure positive: troviamo lavoratrici di
indiscussa professionalità, mogli e madri che il destino ha sottoposto a dure
prove e che hanno fatto della dignità la loro ragione di vita, giovani donne
sportive e in carriera, popolane modeste ma ricche di sagacia, e un’emblematica donna di camorra intelligente
e degna di rispetto che, nonostante il
discutibile ruolo, finisce per suscitare simpatia. Eroine quasi, descritte con
cura puntigliosa e grande sensibilità, e quasi sempre belle, ma soprattutto
donne forti popolano l’universo del commissario Lombino. Si direbbe che
l’autore voglia esaltare la femminilità in tutte le sue sfaccettature più
luminose così che i personaggi maschili, pur non banali, risultino in penombra.
Con il passato
tornano dunque tutti i temi cari all’autore, anche la fisica che da sempre appassiona il commissario.
Partendo dalla disputa tra Bohr ed Einstein riguardo alla realtà e alla sua
osservazione, Lombino si pone domande fondamentali: si può eludere il principio
di causa ed effetto? Quello stesso principio su cui si fonda il lavoro di uno
sbirro? E si può dire che la realtà dipenda dall’osservatore? Domande cruciali
perché il vicequestore Lombino non accetta risposte preconfezionate, non si
fida delle apparenze, prende le distanze dai pregiudizi. Si mette in
discussione, dolorosamente si interroga sul suo lavoro di sbirro (è proprio
così che ama definirsi) e sulle sue scelte. Questo tipo di problematicità ha da
sempre caratterizzato il personaggio: nel romanzo precedente, “Assenza
centrale”, Lombino addirittura accarezzava l’idea di lasciare il suo lavoro, di
scegliere l’assenza, come probabilmente accadde a Majorana, e non per fuggire
dalle proprie responsabilità, ma per assumersele in pieno.
Nonostante i
temi forti affrontati nel romanzo, nonostante il sangue che ricorre come
maledizione, come destino, o più crudamente come sangue versato, nonostante le
tragedie private e l’indicibile dolore che le accompagna, la lettura risulta sempre
scorrevole e appassionante. La scrittura di Ferrone ha infatti il pregio di passare disinvoltamente da toni leggeri a toni
decisamente drammatici in pagine di forte impatto emotivo. Sembra proprio che
l’autore si diverta a trascinare il lettore nei meandri dei suoi pensieri,
nelle sue arguzie, nell’ ironia e nell’autoironia (come quando scopriamo che
una delle donne suicide, prima del gesto estremo, stava leggendo un romanzo dal
titolo “Nucleo centrale”).
Ci si diverte dunque,
e ci si commuove immergendosi in questo libro coraggioso che sancisce
definitivamente la supremazia del fattore
umano come motore primo di tutte le azioni e di tutti i comportamenti. E proprio
per questo, e perché “niente sarà come prima”, stavolta Lombino smette i panni
dello sbirro e “si consegna” ai suoi lettori. In attesa di giudizio.
Ros
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