martedì 15 dicembre 2015

La recensione di Ros

“Napoli è Centrale” di Vito R. Ferrone - Youcanprint selfpublishing

Tutto ha inizio con una sorta di curioso rompicapo: due donne suicide lasciano lo stesso identico biglietto, e l’enigmatico messaggio in esso contenuto ha tutta l’aria di essere indirizzato al commissario Lombino. Potrebbe sembrare solo un misterioso rovello se non fosse che le due donne vengono dal passato di Lombino e “il passato che ritorna”, carico di angosciosi interrogativi, è foriero di vicende  assai drammatiche, tanto che alla fine, come lo stesso autore ci informa nella quarta di copertina, “niente sarà come prima”.
Questo romanzo di Ferrone (l’ultimo della saga del commissario?) si riallaccia palesemente al primo episodio, a quel “Nucleo centrale” che aprì la serie e che i lettori affezionati ben ricordano.
Tempo è passato: Lombino, divenuto vicequestore, è felicemente sposato con lo splendido PM Margherita Scarfoglio da cui attende un figlio, abita a Posillipo, e continua ad avvalersi della preziosa collaborazione della simpatica e invadente domestica Carmelina. Ma nessuno sfugge per sempre al proprio passato, sembra dirci l’autore: ciò che è stato,  nel bene e nel male, ritorna prima o poi a ricordarci chi siamo.
E se in “Nucleo centrale” Napoli e la “napoletanità” più che uno sfondo della vicenda, diventavano spesso i protagonisti della storia, qui è il titolo stesso a suggerirci che Lombino e la sua città d’adozione sono un tutt’uno nella vita come nel lavoro: capire i luoghi per comprendere i fatti e le persone è la strategia vincente del commissario. Lombino “legge” i luoghi così come legge nell’animo umano facendo leva su un’ osservazione attenta, sul buon senso, su un’innata empatia. E la città, con la sua complessità e il suo fascino, vengono raccontati attraverso un’ umanità varia: oltre ai collaboratori del commissario, e agli amici di sempre, troviamo le storie di operai licenziati che minacciano di buttarsi dal tetto, dirigenti scolastici alle prese con le occupazioni studentesche, il barista di fiducia e i suoi problemi di famiglia, la vita nei bassi della città, le vicende del nuovo fidanzato della tata Carmelina. Attraverso le parole del commissario si intuisce chiaramente il legame viscerale che lega l’autore alla sua città: un rapporto di amore-odio, una sorta di dipendenza profonda e indissolubile.
Non può sfuggire poi che questo libro, più degli altri, è un omaggio alle donne. Giustamente citate nella dedica come splendide figlie della città di Partenope. Pur nella loro diversità si tratta sempre di figure positive: troviamo lavoratrici di indiscussa professionalità, mogli e madri che il destino ha sottoposto a dure prove e che hanno fatto della dignità la loro ragione di vita, giovani donne sportive e in carriera, popolane modeste ma ricche di  sagacia, e un’emblematica donna di camorra intelligente e degna di rispetto che, nonostante  il discutibile ruolo, finisce per suscitare simpatia. Eroine quasi, descritte con cura puntigliosa e grande sensibilità, e quasi sempre belle, ma soprattutto donne forti popolano l’universo del commissario Lombino. Si direbbe che l’autore voglia esaltare la femminilità in tutte le sue sfaccettature più luminose così che i personaggi maschili, pur non banali, risultino in penombra.
Con il passato tornano dunque tutti i temi cari all’autore, anche la  fisica che da sempre appassiona il commissario. Partendo dalla disputa tra Bohr ed Einstein riguardo alla realtà e alla sua osservazione, Lombino si pone domande fondamentali: si può eludere il principio di causa ed effetto? Quello stesso principio su cui si fonda il lavoro di uno sbirro? E si può dire che la realtà dipenda dall’osservatore? Domande cruciali perché il vicequestore Lombino non accetta risposte preconfezionate, non si fida delle apparenze, prende le distanze dai pregiudizi. Si mette in discussione, dolorosamente si interroga sul suo lavoro di sbirro (è proprio così che ama definirsi) e sulle sue scelte. Questo tipo di problematicità ha da sempre caratterizzato il personaggio: nel romanzo precedente, “Assenza centrale”, Lombino addirittura accarezzava l’idea di lasciare il suo lavoro, di scegliere l’assenza, come probabilmente accadde a Majorana, e non per fuggire dalle proprie responsabilità, ma per assumersele in pieno.
Nonostante i temi forti affrontati nel romanzo, nonostante il sangue che ricorre come maledizione, come destino, o più crudamente come sangue versato, nonostante le tragedie private e l’indicibile dolore che le accompagna, la lettura risulta sempre scorrevole e appassionante. La scrittura di Ferrone ha infatti il pregio  di passare disinvoltamente da toni leggeri a toni decisamente drammatici in pagine di forte impatto emotivo. Sembra proprio che l’autore si diverta a trascinare il lettore nei meandri dei suoi pensieri, nelle sue arguzie, nell’ ironia e nell’autoironia (come quando scopriamo che una delle donne suicide, prima del gesto estremo, stava leggendo un romanzo dal titolo “Nucleo centrale”).
Ci si diverte dunque, e ci si commuove immergendosi in questo libro coraggioso che sancisce definitivamente  la supremazia del fattore umano come motore primo di tutte le azioni e di tutti i comportamenti. E proprio per questo, e perché “niente sarà come prima”, stavolta Lombino smette i panni dello sbirro e “si consegna” ai suoi lettori. In attesa di giudizio.


Ros

Pubblicato il quinto episodio della saga del commissario Lombino



"Napoli è Centrale" di Vito R. Ferrone - Youcanprint selfpublishing
Dalla quarta di copertina:
Due suicidi preoccupano il vice questore Arcangelo Lombino. Per le modalità con le quali sono stati posti in essere. Per una tempistica che lascerebbe intravedere una pericolosa regia. E per i due biglietti che li motivano e che, con pochi dubbi, sembrano proprio scritti per lui. Più preoccupato di Lombino è, come spesso accade, il commissario Maffettone suo amico e fratello di quella Rosaria Maffettone che torna a Napoli dopo un lungo periodo di assenza per motivi di studio. Più bella che prima. L’affascinante pubblico ministero Margherita Scarfoglio, moglie innamorata e sinceramente ricambiata del vice questore, ha ben altre preoccupazioni che la gelosia. Una rogatoria internazione ha aperto nuovi e inquietanti scenari sul Sistema. Lei stessa è in pericolo. Di vita. Sarà Carmelina, impareggiabile tata, a ricordare, se mai ce ne fosse bisogno, al suo commissario, ad oggi vicequestore, che non si deve permettere sgarri alla fedeltà.  Sarà sempre lei ad accompagnare con la sua intelligenza, la sua vivacità, la sua conoscenza di un popolo al quale appartiene, di diritto e pienamente, a guidare, seppure inconsapevolmente, Lombino verso la soluzione finale. Che come al solito sarà legata a quello che altri hanno definito il “fattore umano”. Solo che questa volta niente sarà come prima. 

Disponibile nei consueti canali di vendita in formato cartaceo e in e-book

mercoledì 6 maggio 2015

Lombino non tiene tanto genio di arrestare i colpevoli



Lo ammetto, che devo fare?, così è. Il commissario Arcangelo Lombino ad oggi vice questore con la precisa responsabilità, per delega si capisce, del mantenimento dell’ordine pubblico in quel di Napoli, non tiene tanto genio di arrestare i colpevoli. Che lui stesso infallibilmente, adesso non esageriamo, quasi, molto quasi infallibilmente, scopre. Un casino!

Mettiamo un poco di ordine. Innanzitutto quali colpevoli? Non certo i camorristi. Su quello non ci sono perplessità. Oddio in Nucleo Centrale non è che è proprio il colpevole camorrista a finire in galera, però che può fare il commissario? Quell’altro, pure lui camorrista, si consegna con tanto di confessione circostanziata. Consegna pure l’arma del delitto, la perizia balistica dubbi non ne lascia, con le sue impronte. E non tiene uno straccio di alibi. Neanche un’ombra di movente, se è per questo. Lombino lo capisce ma, ripeto, che può fare? Arrestare chi secondo lui è il vero colpevole? Ma come fai? Confidarsi, confrontarsi, fidarsi del pubblico ministero più bello che il noir mondiale ricordi, la splendida e professionale Scarfoglio dottoressa Margherita. Non era cosa. Si erano pure litigati. Nientemeno che Lombino non se la scopava. Un fatto che gridava vendetta al cospetto del padre eterno.
(Non vorrei dire, ma poi Lombino se la tromba alla bella dottoressa, se la sposa e da bravo commissario/vice questore del mio amatissimo sud la mette pure incinta. Che sono tutte queste storie con tutti questi problemi? Uno convive non convive; è fidanzato non è fidanzato; ci piace non ci piace; tengo desiderio di te, ma Lucilla non è male - chi è Lucilla? Non lo so, mi piaceva il nome. Un’altra te, diciamo - ; stare insieme porta all’abitudine eppure non posso vivere senza di te, quindi me ne sto da solo. Ce ne stiamo da soli, lontani. Come si fa a diventare padre? Quest’ultimo quesito mi fa impazzire. Ma come investigatori che non vi dico, e non lo sanno? Lombino lo sa. E si dà da fare. Margherita poi, anzi prima, è una gran fica. Quindi? Lo so già, quindi. Che sono un autore rozzo. Uno lo sa coma si fa a diventare a padre, è la responsabilità che ne deriva il problema. Primitivo. Di un autore. Sarà. Io tanto tanto non ne sono convinto. Uomini di quel calibro, che si sono caricati sulle loro spalle tutti i problemi del mondo dei vivi e in alcuni casi anche di quello dei morti, che temono, hanno paura, della responsabilità di crescere un figlio? Mah. Oltretutto scopano come ricci, nelle condizioni le più impossibili, e mai una di loro che resti gravida. Boh.)
Insomma in Nucleo, Lombino, il colpevole, quello che tale si è dichiarato, lo arresta senza se e senza ma. Come uno sbirro vero. Quale egli si sente. Ed è. E il vero colpevole? Libero. Che razza di sbirro vero, che si sente ed è, questa specie di commissario sarebbe? Non so che dire. Lombino questo è. È capace di gesti, vogliamo dire alla Marlowe? È capace. Arcangelo Lombino si prende responsabilità altre. Pagando di persona.
Lombino i camorristi li manda in galera, senza requie, abbiamo detto. Gli altri non proprio. Perché? Il primo problema di Lombino è che “giustizia” è una parola che non suona bene né in bocca ad uno sbirro né tantomeno sulle labbra di un magistrato, qualunque esso sia, pubblico ministero o giudicante. Già tiene il commissario, ad oggi vicequestore, un problema grande come una casa con la legge, figuriamoci con la giustizia. Per non parlare del carcere.
Partiamo dal carcere. Lombino non crede che il carcere sia un luogo dove la gente diventa migliore. Per il nostro commissario il carcere è un luogo di perdizione. Non c’è nessuna reale efficacia della pena detentiva come rieducazione. Chi esce da galera dopo aver scontato quello che aveva da scontare è mediamente peggiore di quanto non lo fosse prima di uscire. Del reinserimento, poi, in un contesto sociale degno non ne parliamo proprio, chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere, e ancora chiacchiere. Il carcere è un inferno, dove se uno non si suicida è perché …. Non lo so, ma di sicuro bene non si trova. Troppo severo il giudizio di Lombino? Troppo duro? Una società ha il diritto di difendersi, e per questo che esistono le carceri. Lombino è d’accordo. Ma il problema lo tiene. Se uno, quindi, ha ucciso per troppo amore, o per difendere chi ha amato e ama, o anche per esagerata gelosia, o perché non poteva fare diversamente, perché se ciò che altri hanno chiamato fattore umano in qualche modo e misura lo ha messo con le spalle al muro, in quell’inferno di nome carcere bisogna mandarlo?
La legge. La legge non è uguale per tutti. Lombino ne è convinto. In Relatività Centrale Lombino spiega perché la legge non è, non lo è mai stata, e sempre più non lo sarà, uguale per tutti. Se uno non vuole leggere Relatività, secondo me sbaglia ma è un suo diritto, può, per farsi un’idea, pensare al cataclisma di esperti che più esperti non si può che imperversano più o meno baldanzosamente per i processi. Scusate, ce lo vogliamo chiedere quanto costano? Loro e tutte le scene del crimine bidimensionali, tridimensionali e, persino, tetradimensionali, che devono ricostruire (tetradimensionali non esiste, non è possibile! Sarà, ma io per prudenza lo lascio.), tutti i percorsi che devono percorrere e ripercorrere, tutte le analisi che devono essere fatte e rifatte, tutte le psicologie che devono essere intraprese e portate a compimento. E voglio fermarmi qui. Chi ce li ha tutti questi soldi? E come fa uno a difendersi se l’accusa ha mezzi e potere illimitati?
Certo, non è che Lombino non crede nella legge, ci crede. Il suo dovere lo fa. Quello di sbirro. Mediamente lo fa, e lo fa anche bene. Però non è che è convinto che il così detto rigore della legge vada bene sempre e comunque. Per i camorristi non c’è problema, hanno un sacco di soldi. E poi a Lombino non stanno simpatici, se vogliamo dire così, proprio per niente. Sopraffazione, violenza, crudeltà, malvagità, ferocia, e ancora troppi  soldi! Ma gli altri? Tutti gli altri? Quasi vittime del loro fattore umano? È un problema. (E i camorristi? Non tengono pure loro il fattore umano? Sì e no. Forse donna Assunta Imperio, non so. E le colpe della società, delle ingiustizie sociali, del lavoro che non c’è? Indubbiamente, ma quando è troppo è troppo. E poi, l’ho detto,  a Lombino “il sistema” non piace proprio per niente, a lui piacciono le persone. Quelle che soffrono, che si sacrificano, che amano, che odiano, e non per soldi o sopraffazione, che si mettono totalmente in gioco, e non per un potere ottuso e violento, che sanno andare oltre. Anche oltre ciò che la legge non riconosce. Assunta Spina può insegnarci qualcosa?).
E siamo arrivati alla giustizia. Per Lombino la giustizia è roba da maneggiare con cautela. Anche se amministrata nel nome del popolo. Non c’è giustizia senza verità. E la verità processuale è quella che è. In tribunale è vero ciò che ragionevolmente puoi dimostrare. In un noir che si rispetti siamo border line. Ciò che è accaduto è accaduto, ciò che è vero è vero. I tribunali vanno rispettati e aiutati ma … c’è sempre un ma.
Se proprio vogliamo il commissario ad oggi vicequestore Lombino fa propria, coscientemente o anche no, la posizione di Dostoevskij, cioè che, in fondo, la giustizia è una categoria divina. Come è noto per Dostoevskij senza Dio non c’è verità. E senza verità non c’è giustizia. Non è che Lombino sia Dostoevskij. Siamo tutti d’accordo credo, anche perché da come riporta per iscritto le sue vicissitudini mi pare fin troppo evidente. Ma non è neanche Montalbano tutto compito e convinto che l’uomo basti a se stesso e, per ciò stesso, non dipende. Non è figlio. A Salvuzzo nostro, e a tutti gli altri, la legge e la conseguente infallibile giustizia, direi degli uomini, basta e avanza. E convince. È quasi una ragione di vita. Non c’è nessuno al di sopra della legge, che se pure perfettibile, va rispettata e ad essa vanno affidate in toto le nostre vite. Senza se e senza ma. Lombino, invece, tiene sempre un sacco di dubbi (e anche qui, francamente, non se ne poteva più di tutti questi commissari e affini che sono più infallibili di Guglielmo Tell con una mela annurca, più decisi di Ulisse alle prese con i proci, più convinti del professore Odifreddi quando deve parlare male della chiesa, cioè sempre, più intelligenti di Einstein, più geniali di Leonardo, più super di Superman), e sente con convinzione che la giustizia è una cosa troppo seria per lasciarla in mano a dei tecnici del diritto. E si arrangia a modo suo.
E poi c’è il noir. Già ho detto ma conviene ripeterlo. C’è nel noir come un di più. Un di più di sofferenza, un di più di compassione, magari violenta (sic!), un di più di assunzione di responsabilità, un di più di carica morale. Proprio così: carica morale. Ci vuole uno spessore morale convincente per non arrestare chi bisogna arrestare. Secondo la legge e secondo il proprio dovere. Qua sta il punto. Ma ci vuole anche una conoscenza di chi ti sta di fronte, altrimenti non vai da nessuna parte. Lombino lo sa. Lombino conosce chi gli sta di fronte. Conta e rischia sul fattore umano. Sul suo e su quello dei colpevoli. Non c’è nessuna sociologia. Sto parlando di un’altra cosa. I colpevoli sono colpevoli. E in qualche modo pagheranno perché la loro umanità, il fattore umano, è tale che non riescono a farla franca. È in fondo su questo che Lombino conta, senza nulla a pretendere. Intanto lui è pronto a pagare. Tanto per dire, in Relatività paga, e duramente, le conseguenze di una sua scelta.
In ultimo. Ma insomma, Lombino si rende conto che non arrestare chi lui stesso individua come colpevole è comunque un vulnus per il mestiere che fa? Vanno bene tutte le motivazioni (forse), ma comunque sbirro è. Orgogliosamente sbirro, si ritiene. Lombino lo sa che il problema ci sta. Il vulnus c’è. E con serietà, in Assenza Centrale, pensa di lasciare. Confortato nella sua scelta da esempi molto più autorevoli. In altri campi. Nella sua amata fisica, e dintorni, tanto per non sbagliare. Vuole lasciare. E lo farebbe pure. Perché è uno serio. C’è stato solo un problema: i pochi e affezionatissimi lettori non sono tanto d’accordo. A loro sembra proprio che vada bene così.

Napoli, 5 maggio 2015
Vito R. Ferrone in Lombino

sabato 18 aprile 2015

Annotazioni in libertà dell’autore sul personaggio di Carmelina Volpe. Tata, o presunta tale, del vice questore Arcangelo Lombino.



Carmelina è una ragazza madre. Ha una figlia Francesca. Per questo “scuorno” è stata cacciata di casa. Neanche mammà è stata capace di tenersela, di accogliere la nuova vita che doveva arrivare. Solo una zia le è stata vicina finché ha potuto. La figlia di Carmelina porta il suo nome. Francesca appunto.
Francesca sta in quinta elementare o in prima media, non è stato mai chiarito. Ma non ha importanza. Ne consegue che Carmelina non è più tanto una ragazza. Diciamo che ha avuto Francesca a sedici anni. Quando ha preso servizio dal commissario Lombino ne avrà avuto venti o ventuno. Adesso venticinque, ventisei. Una donna.
Una donna che si sente di famiglia. Carmelina vuole un bene da pazzi al suo commissario. In fondo Lombino le ha dato la dignità di un lavoro e, prima ancora, l’ha trattata e la tratta meglio di quanto ha fatto la sua famiglia. Il suo stesso sangue. Carmelina con Lombino ha trovato una “casa”.
Carmelina ha la stessa sfrontatezza, lo stesso affetto, la stessa voglia di possesso di una sorella napoletana nei confronti del proprio unico fratello maschio. Io la vedo così. Si farebbe uccidere per Lombino. Quindi, come dire?, sta sempre in mezzo. Si mette di traverso. Risponde, e in alcune circostanze, risponde anche male. Ma non significa niente. Anche quando difende la “signora dottoressa” e “attacca” il commissario. Lombino lo sa.
Carmelina ha un profondo rispetto per la dottoressa Scarfoglio, e anche un certo timore reverenziale. Con il commissario è tutta un’altra storia. Ha confidenza. Un’intesa profonda. Quasi cromosomica mi viene da dire. Per il suo commissario si butterebbe nel fuoco, sentite a me. E giustamente in qualche occasione lo intossica. È tutto come deve essere. Almeno da queste parti.
Carmelina è suo malgrado e senza nessuna coscienza colei che dà a Lombino l’intuizione giusta, l’illuminazione decisiva. O quasi. Come mai? Gli è che Lombino tanto per cominciare è una sorta di genius loci. E poi, come si può dire?, non ascolta, “sente”; non indaga, “riflette”. Ancora. Non crede molto nell’analisi scientifica della scena del crimine, si tiene alla larga dalla prova del Dna, non aggancia celle e delle indagini patrimoniali non sa proprio che farsene. Anzi non le piglia proprio in considerazione. Dell’elettronica ignora l’esistenza. Grosso modo gli bastano le autopsie di una dottoressa capace, bella e intelligente e un po’ di balistica, se pure. Perché il vice questore, già commissario, Lombino “conosce” chi ha di fronte. Per istinto. Per esperienza. Per vicinanza. Per appartenenza. Della serie siamo del sud. (Allora l’obiezione: Lombino è commissario che al nord non può lavorare. Chi l’ha detto? Lombino è intelligente, e la finirei qui. Se no Carmelina si piglia collera, e sono cazzi. Amari.). Il suo problema, il problema “centrale” (nei titoli “centrale” c’è sempre  proprio perché fondamentale, “a fondamento” del personaggio. E poi anche perché poteva diventare un efficace “tormentone” – come succede nelle nostre estati per esempio – una sorta di passa parola semplice e, diciamo, fattivo. Spero solo che da tormentone non diventi o non sia diventato un tormento!) di Lombino è ciò che altri hanno definito il “fattore umano”. E Carmelina è decisiva. Perché è autentica figlia di questa città splendida e impossibile.
Ora non è che Carmelina rappresenta o può rappresentare tutte le sfaccettature psicologiche, caratteriali, ambientali, eccetera eccetera, della città delle sirene, cioè dei suoi abitanti. Non sarebbe proprio possibile perché Partenope è tutto un mondo, assai complicato e complesso. Un manicomio, direi. Qua ognuno fa quello che deve fare, pensa quello che vuole pensare, si comporta come vuole comportarsi……a prescindere. Qui a Napoli tutti ci abbiamo un quid. Anzi il quid. Che pensavate? Di trovare qualcuno senza quid all’ombra del Vesuvio? Non scherzate proprio. E se ne è uno solo di quid ancora ancora. Insomma ci vuole Carmelina. Così che al commissario, ad oggi vice questore, Lombino le cose diventano chiare, o più chiare. E capisce, o comincia a capire. E spiega. Fottendosene della pistola fumante. Della prova che inchioda il colpevole senza se e senza ma. Gli basta che sia credibile. La spiegazione. Che regga. All’esame dell’intelligenza dei suoi pochi e cazzutissimi lettori. I quali, è indubbio, vogliono bene senza alcun ritegno a Carmelina. Impareggiabile tata, o presunta tale.

Napoli, 18 aprile 2015
Vito R. Ferrone in Lombino