lunedì 8 aprile 2013

La recensione di Alessandra Ottieri



Vito Rosario Ferrone, Relatività centrale, Arduino Sacco Editore, 2012

Relatività centrale, romanzo di Vito Ferrone pubblicato nel 2012 da Arduino Sacco Editore, è il secondo episodio di una saga noir iniziata due anni fa con Nucleo centrale, al quale l’autore rinvia anche nella scelta del titolo. Il terzo romanzo – Centro immobile – è già in preparazione e, ne siamo certi, altri seguiranno. I tre titoli, scelti con intelligenza, nei quali compaiono termini come “nucleo” “relatività” “centro”, non solo ci riconducono alla formazione tecnico-scientifica dello scrittore e alla sua professione di ingegnere chimico, ma svelano un tratto importante del protagonista, il commissario Lombino (alter-ego dichiarato dell’autore), a tal punto affascinato dalla fisica einsteniana da utilizzarla, in quest’ultimo romanzo, come chiave di lettura di due difficili casi di omicidio.
Ferrone, dunque, è un ingegnere-scrittore di tipo “seriale”. I suoi romanzi sono naturalmente narrazioni autonome e in sé concluse, ma sono anche i primi due capitoli di una vicenda (umana e professionale) che si snoda, tra mille complicazioni, sullo sfondo di una Napoli più che mai viva e brulicante, animata da personaggi borghesi e popolari “veracemente” napoletani, ma mai stereotipati. Innanzitutto c’è il commissario Lombino – lucano d’origine, ma napoletano d’adozione – alle prese con l’organizzazione del matrimonio con l”eterna fidanzata” Margherita Scarfoglio: donna bella e intelligente, Pubblico Ministero rispettato da tutti, innamorata di un uomo tanto diverso da lei (Lombino ha radici contadine, viene “dalla zolla”, Margherita è una “posillipina” doc), ma del quale apprezza l’onestà e la concretezza; c’è poi Carmelina, la cameriera popolana, un po’ invadente ma fidatissima, che prepara un ottimo caffè e stira le camicie come nessun altro al mondo; c’è Rosaria, la giovane amica, campionessa di pallanuoto (lo sport preferito di Lombino-Ferrone), che, coinvolta nel primo caso d’omicidio (quello del suo amante Marco Frassinelli, commercialista al servizio della camorra), è anche la sorella del vice-commissario Pasquale Maffettone; c’è l’informatore doppiogiochista Pèr ‘e palumm; ci sono i colleghi poliziotti e gli agenti del commissariato (Salvatore e Antonietta, Gennaro e Francesco), ragazzi umanissimi e coraggiosi, disegnati dall’autore con estrema “verità”. Sopra tutto e tutti incombe la lunga mano della camorra: figure di donne, più spietate degli uomini, appartenenti al clan del defunto Tore “Scarface”, al cui vertice sembra esserci la giovane Annalisa Imperio, freddata in una una sparatoria dalla dinamica misteriosa…Sullo sfondo scorre la vita pulsante di Napoli, città inquieta e cinica, ferita a morte dalla malavita organizzata, ma anche pronta a reagire grazie alla forza morale e all’intuito dei suoi uomini migliori.
Questo romanzo, insomma, che si inserisce a pieno titolo nella migliore tradizione del romanzo “giallo” europeo, affascina e coinvolge il lettore tenendolo fino alla fine col fiato sospeso; ciò grazie anche ad uno stile teso, segmentato, fatto di periodi brevi e incalzanti, e da una struttura narrativa ben articolata, nella quale le molte parti dialogate si intrecciano con i pensieri del commissario (riportati in corsivo) e con le sue riflessioni sulla teoria della relatività (“generale” e “ristretta”), alla quale ricorre in più occasioni per tentare di sbrogliare la matassa intricata del duplice omicidio. Lombino è certo “parente” di tanti altri commissari illustri della letteratura italiana (dall’Ingravallo di Gadda al Montalbano di Camilleri), ma Ferrone riesce a creare un personaggio originale, credibile, ricco di sfumature: Lombino è un formidabile poliziotto, dotato di grande fiuto e sensibilità, ma è anche pronto a mettersi in discussione se le sue scelte si rivelano sbagliate; è maldestro nel rapporto sentimentale con Margherita (che, con ironia, giudica “migliore di lui”), ma non può fare a meno del suo equilibrio di donna e di magistrato; è paziente con Carmelina e ne accetta le impertinenze con bonarietà, perché a Napoli, si sa, la cameriera è persona di famiglia; è burbero con i colleghi e persino con il carissimo vice-commissario Maffettone, del quale mal sopporta le debolezze e gli slanci d’affetto; è paterno con i giovani agenti del commissariato e soffre maledettamente quando perde uno dei “suoi uomini”; non ama la violenza, ma conosce bene le armi e non esita a colpire con un pugno in pieno volto l’informatore Pèr ‘e palumm, che ha tradito la sua fiducia, in una delle scene più tese e realistiche dell’intero romanzo. Insomma, non possiamo fare a meno di affezionarci ad un commissario così e ne attendiamo, con ansia, le prossime mosse.
Anche la scelta della copertina, infine ci sembra indovinata: una splendida veduta aerea, in bianco e nero, del centro storico di Napoli, con il decumano che spacca in due la città e che sembra arrivare fino ai grattacieli del Centro Direzionale…è forse questa una traccia, una pista che l’autore vuol farci seguire? Ci piace pensare che Ferrone abbia voluto, più o meno consapevolmente, indicare ai napoletani un cammino da compiere per far uscire la città dal suo secolare immobilismo: un percorso dall’antico al moderno, nel senso di un rinnovamento urbanistico, civile, politico di Napoli, che non vuol essere rifiuto della tradizione, quanto piuttosto degli equivoci che sono sorti attorno ad essa e al concetto di “napoletanità”. La tolleranza, la saggezza, la pazienza sono, è vero, virtù ataviche del popolo partenopeo, ma è un errore confonderle con l’indifferenza, l’inerzia, la rassegnazione pigra e connivente.

Alessandra Ottieri

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